04 Apr Perché abbiamo sempre fame? Potrebbe dipendere dalla neuroinfiammazione
Esistono giorni in cui, senza un apparente motivo, il nostro appetito sembra sfuggire al controllo, con una voglia improvvisa di zuccheri, fame continua anche dopo pasti completi e abbondanti e desiderio di cibi grassi o ultra-processati.
Il primo pensiero va allo stress, alle cattive abitudini o alla mancanza di volontà… ma se il problema, invece, partisse da un’infiammazione a carico del nostro cervello?
La neuroinfiammazione è una condizione ancora poco discussa fuori dagli ambienti scientifici, ma estremamente rilevante: un’infiammazione cronica di basso grado che coinvolge aree specifiche del nostro cervello, in particolar modo quelle legate al controllo dell’appetito, al tono dell’umore e alla regolazione del metabolismo.
Tra queste, l’ipotalamo è una delle più coinvolte. Il punto centrale è questo: quando siamo davanti ad una neuroinfiammazione, anche il nostro rapporto con il cibo cambia.
L’ipotalamo è una struttura che agisce come “centralina metabolica”, ricevendo segnali da ormoni come la leptina (che segnala la sazietà) e la grelina (che stimola la fame). In condizioni ottimali, questo sistema funziona in perfetto equilibrio: mangiamo quando serve, ci fermiamo quando abbiamo assunto l’energia necessaria.
In presenza di neuroinfiammazione, però, questi segnali vengono distorti. La leptina, in particolare, può diventare meno efficace: il cervello smette di percepirla correttamente e, nonostante livelli elevati nel sangue (tipici di chi ha già grossi accumuli adiposi), continua a inviarci segnali di fame, generando un fenomeno chiamato “resistenza alla leptina”.
Secondo uno studio, pubblicato su Cell Metabolism, un eccesso di grassi saturi nella dieta può attivare una risposta infiammatoria nell’ipotalamo già dopo pochi giorni. Questo processo viene mediato da cellule immunitarie del sistema nervoso centrale che si attivano in risposta all’accumulo di nutrienti tossici o pro-infiammatori, con il risultato di una vera e propria alterazione del comportamento alimentare.
Non si tratta solo di mangiare di più, ma anche di cosa desideriamo mangiare: quando il sistema dopaminergico viene coinvolto nell’infiammazione, cambiano anche le nostre scelte alimentari e tendiamo a cercare cibi altamente gratificanti, ipercalorici, ricchi di zuccheri e grassi (il cosiddetto cibo di conforto).
Questo è particolarmente evidente nei contesti di stress cronico che, a sua volta, rappresenta un potente attivatore della neuroinfiammazione; non è un caso, infatti, che nei momenti di sovraccarico emotivo, o mentale, si cerchi sollievo proprio nel cibo spazzatura.
Secondo un’interessante ricerca, questa volta pubblicata su Brain, Behavior and Immunity, le diete ad alto contenuto di zuccheri e grassi saturi non solo potrebbero andare ad alterare la neuroplasticità e la funzione cognitiva, ma anche aumentare l’attività infiammatoria cerebrale interferendo con i circuiti della fame e della ricompensa.
Ma cosa peggiora questa condizione? E cosa, invece, può aiutarci?
Una dieta ricca di alimenti ultra-processati, zuccheri raffinati, oli vegetali ossidati e grassi trans è il terreno ideale per favorire uno stato di neuroinfiammazione: il cervello è un organo estremamente sensibile all’infiammazione sistemica e, attraverso la barriera emato-encefalica, è in costante dialogo con ciò che accade a livello intestinale e metabolico.
Tra i nutrienti protettivi, invece, gli Omega-3 a catena lunga (EPA e DHA) giocano un ruolo centrale: sono in grado di modulare l’attività infiammatoria e favorire la plasticità neuronale (oltre ad avere una potente azione cardioprotettiva). Si trovano principalmente nel pesce azzurro, nell’avocado, nella frutta secca e nei semi oleosi ma, all’occorrenza, possono essere assunti anche sotto forma di integratore di qualità, sotto indicazione di un bravo nutrizionista.
Anche i polifenoli, contenuti in frutti di bosco, tè verde, cacao puro, curcuma e olio extravergine di oliva mostrano un’azione neuroprotettiva e antinfiammatoria.
Non va trascurato, poi, il ruolo del nostro microbiota intestinale, sempre più al centro di una stretta connessione tra cibo, intestino e cervello. Una condizione di disbiosi intestinale, infatti, può contribuire all’infiammazione sistemica e, di conseguenza, a quella cerebrale. Per questo, oltre a effettuare un’analisi del microbiota per vederne la composizione e andare ad agire (se necessario) con la supplementazione di specifici ceppi batterici, possiamo adottare un’alimentazione ricca di fibre prebiotiche e alimenti fermentati come kefir, crauti o tempeh.
Dal punto di vista della supplementazione, possono essere valutati integratori di curcumina, magnesio e vitamina D (spesso carente e associata a maggiore suscettibilità all’infiammazione).
Infine, anche il modo in cui mangiamo può influire: consumare i pasti in fretta, in ambienti stressanti o davanti agli schermi peggiora la digestione e stimola il circuito dello stress alimentare. Adottare le buone norme della mindfulness alimentare come mangiare con attenzione, calma e presenza può agire, in modo indiretto, sulla regolazione del nostro appetito, migliorando la situazione.
Questo è uno dei tanti aspetti che vengono gestiti nel Metodo Colombo, un approccio innovativo, sviluppato in oltre 20 anni di esperienza sul campo, che si concentra anche sulla consapevolezza alimentare e sulla gestione emotiva del cibo, agendo sia in ottica migliorativa, che in ottica preventiva.
Invece di combattere con la forza di volontà contro un impulso, proviamo a fermarci, osservare e chiederci se stiamo realmente ascoltando il nostro corpo. La neuroinfiammazione non si risolve con trucchi magici, ma con il giusto supporto nutrizionale possiamo tornare a riconoscere una fame vera e fisiologica, facendo pace con il nostro corpo.
Se sospetti che qualcosa non torni nel tuo rapporto con il cibo, può essere il momento giusto per chiedere aiuto e prenotare un primo consulto con me cliccando sul pulsante verde qui sotto.
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